Ragnetti, una birra

Quella mattina di giugno era uscito con un po' di fretta da casa perché si era svegliato tardi e così era costretto ad ottimizzare quanto più possibile i tempi già di per sé stringati che si imponeva quando, per qualche ragione, la mattina aveva una o più d'una commissione da fare. Alzatosi con il vicino campanile che intonava le undici e mezza, si ritrovò a trangugiare in fretta e furia un caffé amarissimo: era una tradizione giornaliera che non mancava di metterlo in disappunto perché, sotto sotto, non aveva mai apprezzato veramente il sapore del caffé, un po' come per le persone a cui non piace la birra o il vino per il loro sapore; come la birra e il vino, tuttavia, la ritualità collettiva di un caffé prima di uscire era stata inchiodata nelle abitudini quotidiane di L. già da molti anni, certo non ci sarebbe voluto molto per sostituire il caffè con un'altra bevanda, questo è probabile, ma alla base di un grande cambiamento deve esserci sempre una mostruosa predisposizione d'animo, altresì detta Forza di Volontà, di cui forse L. non disponeva, non allora, non quella mattina, sicuramente. Si lavò velocemente la faccia e i denti, mancò di pettinare i suoi lunghi capelli, mossi, color del ciliegio (anche questa era un'abitudine consolidata), si vestì senza badare troppo a ciò che usciva dal suo armadio e, ancora instupidito dal sonno, uscì di casa dimenticandosi di chiudere a chiave, cosa insolita per lui; ad attenderlo, fuori dalla porta, un folcide che pigramente zompava qua e là sulla sua ragnatela, in un angolo del soffitto al riparo dalla luce del sole. Mentre tornava per assicurarsi di aver chiuso la porta (non l'aveva chiusa), con lo sguardo osservava a debita distanza la danza sgraziata di quel gambone; diede un'occhiata anche nell'altro angolo, ma lì al contrario c'era solo aria, probabilmente aria umida. La serratura cliccò, e con quel rumore sordo e lo sbattere scoordinato di passi giù per le scale L. salutò il ragnetto che c'era e quello che non c'era ancora. C'è da dire, tuttavia, che quel saluto non verbale lasciava trasparire un certo nervosismo: nonostante in pubblico facesse di tutto per mascherare quella sua lieve fobia per gli insetti, in privato non aveva motivo di fingere (a chi poi? a sé stesso?) e cercava, quanto possibile, di tenere la giusta distanza tra sé e l'insetto di turno. A dire il vero da piccolo la sua aracnofobia era molto, molto più accentuata di ora, peggiorata anche dal fatto che viveva in un paesino in cui la natura, entro certi limiti, prevaleva ancora sull'urbanizzazione - d'estate il punto di ritrovo suo e dei suoi amichetti era in una specie di radura in un bosco non lontano da casa sua, dove (questo è il ricordo di L.) non potevi sederti sotto un albero senza necessariamente spiaccicare col sedere almeno un paio di ragni: L. ricorda che cercava sempre di non sedersi mai in quella radura, pur riconoscendo a posteriori (ci stava pensando giusto quella mattina, scendendo le scale) che la stima dei due-ragnetti-uccisi-per-ogni-seduta era certamente esagerata, anche ammettendo che là ci fosse qualche sorta di colonia o di Grande Metropoli dei Ragni. Scendeva le scale e ripensava a questi fatti vecchissimi, si chiedeva che fine avessero fatto i suoi vecchi amici di Z., ripercorreva mentalmente la strada per arrivare a quella radura. Una volta si era appoggiato ad un albero, L. era stanco perché aveva corso per arrivare fin là, e mentre rifiatava ebbe la sensazione di qualcosa di gelatinoso sul palmo della sua mano; rifiatava in piedi, piegato in due e con la mano appoggiata al tronco; non appena l'impulso sulla gelatina raggiunse il cervello, la prima reazione fu il freddo, un'immediato sudore freddo che partendo dal busto si espanse alla schiena e agli arti superiori, le gambe iniziarono quasi a tremolare. Continuò a guardare in basso, ma le sue sopracciglia si erano aggrottate, il terrore, puro terrore, iniziava a manifestarsi sul suo volto paffutello; erano passati due, forse quattro secondi e non riusciva a convincersi in alcun modo che sul palmo della sua mano ci fosse solo della resina e nient'altro. Scendeva le scale di corsa immerso in una continua penombra, inframezzata regolarmente da puntini di luce, i fori del corpo della tapparella. Per fare più in fretta saltava gli ultimi quattro gradini di ogni rampa; ad ogni atterraggio corrispondeva un tonfo grave, che rimbombava scuro su e giù per i cinque piani del suo condominio che, allora, pareva spettralmente disabitato. Anche sulla strada vicina, una provinciale a due corsie che di solito era mediamente trafficata, sembrava che nessuna macchina stesse passando da diversi secondi - un silenzio inaspettato che non mancava mai di sorprendere L. "Forse", pensava, "se mi fermassi sentirei sin da qui il rumore del fiume", perché il fiume non era tanto distante da casa sua; ma era di fretta, e non avrebbe interrotto il ritmo 6 gradini + salto per così poco. Giunto all'androne del primo piano però ci fu una cosa che, nella penombra, lo colpì. Immerso in quel buio di un meriggio estivo, le quattro porte d'ingresso dei quattro appartamenti sul piano avevano l'aria di essere poco curati, come se, di nuovo, nessuno passasse di lì da qualche settimana: alcuni zerbini erano un po' storti, non di molto è vero, ma abbastanza perché si notasse che erano fuori posizione; la pianta di plastica vicino all'ascensore, pur essendo finta, sembrava esprimere con la sua fisionomia impossibile una certa predisposizione alla morte, come se fosse anche lei sul punto di soccombere al caldo, come una pianta vera; l'aria sapeva di chiuso, e aveva come un retrogusto di polvere. Il rumore di una moto, solitaria, interruppe per poco il silenzio altrimenti ininterrotto già da diversi secondi. Non fu in realtà nessuna delle sottili stranezze dette a colpire L., quantomeno non era tra quelle il motivo per cui, pur essendo di fretta, si prese un attimo per rallentare e quasi fermarsi prima della penultima rampa di scale: al primo piano, nell'appartamento più vicino alle scale, proprio su uno degli zerbini fuori posto solo un po', poggiava una bottiglia di birra Heineken, aperta e piena solo a metà. Ed era una posizione decisamente bizzarra per una birra, pensava L., perché in quella casa abitava un signore, probabilmente sulla sessantina, da cui tutto ci si poteva aspettare tranne che bevesse birra, menchemeno che la bevesse e poi la lasciasse aperta fuori dalla porta di casa sua. A L. sfuggiva il nome dell'inquilino, era qualcosa come Signor Va... Var... no, non gli veniva proprio, eppure lo incontrava spesso, tutto preso in lunghe camminate in giro per il paese: non era difficile incontrarlo, mani raccolte dietro la schiena quando non doveva reggere l'ombrello, dalle undici alle due del pomeriggio e dalle 6 alle 8 di sera. Nessuno sapeva bene quale fosse il suo itinerario, probabilmente non ne aveva uno (e probabilmente a nessuno importava poi molto), ma talora sembrava dotato del dono dell'ubiquità. Il signor V. era un tipo silenzioso e quando camminava sembrava immerso in pensieri profondissimi; il suo sguardo era vuoto, i muscoli facciali sembravano rilassati nella loro posizione di stasi e ciò gli dava un'aria a metà tra l'intristito e il catoneggiante: un lato della bocca tendeva leggermente verso l'alto, degli occhialetti da sole con delle lenti blande e molto piccole non coprivano del tutto la superficie dell'occhio, un cappellino da sole nero copriva i suoi sottili capelli grigi. Era silenzioso, il signor V., eppure bastava un nonnulla per interrompere la sua apparente concentrazione: anche soltanto un saluto lo destava, e il tono della sua risposta assomigliava ad una di quelle vocine con cui si parla ai bambini o ai cani. Che fosse sua la birra? L. dubitava, perché dopo diversi anni che incontrava il signor V. qua e là, di tanto in tanto, si era costruito l'immagine come di un animaletto indifeso (anche per via del suo buffo tono di voce), innocuo, fondamentalmente calmo e magari sotto sotto anche coccolone. A gente così non piace la birra, pensava L. che però a quel punto si trovava senza una risposta - era frustrante, e inoltre quella situazione lo turbava un poco: per un attimo pensava all'azione di ladri spacconi che, dopo essere entrati in casa al povero V., per dimostrare la loro superbia e la facilità di tale furto si permettono di lasciare fuori dalla porta quella bottiglia mezza vuota. E magari, al momento dell'irruzione, il signor V. era in casa e dopo essere stato brutalmente picchiato e legato e imbavagliato si sarebbe arreso alla mancanza d'aria e sarebbe morto lì, per una banale rapina, quanto tempo sarebbe passato tra la sua morte e il ritrovamento del cadavere? Perché L., su questo era certo, sapeva che viveva da solo. Pensieri come questo gli capitavano spesso, e di solito capiva che erano storielle solo un po' fantasiose. L'enigma tuttavia permaneva; per quale motivo una persona (perché L. escludeva che fosse quel vecchio, tranquillo e pacato, l'autore di quel misfatto) dovrebbe fare una cosa simile? Non è un gesto intimidatorio, evidentemente; potrebbe essere uno scherzo di qualche bambino, ma come potrebbe mai essere divertente un fatto simile, una bottiglia di birra lasciata a metà fuori da una porta? Forse qualcuno che passava di lì, con una bottiglia in mano, e proprio in quel momento gli squilla il telefono e deve appoggiarla da qualche parte per rispondere, e poi se la dimentica lì, può essere? L. non vedeva minimamente dipanarsi la nebbia che avvolgeva quel semplice pezzo di vetro in quel luogo così innaturale per esso. Si era fermato per pensare a tutto ciò, quasi anche a contemplare la statuarietà di quella Heineken 33cl posata sullo zerbino a tema floreale, ma il tempo scorreva e le commissioni rimanevano, per cui non perse troppo tempo là davanti e si rifiondò giù per le scale, non senza che questo mistero lo affascinasse in qualche modo. Arrivato al piano terra, aprì il portone del condominio e subito la luce meridiana invase il corridoio. Fuori, appesa ad un angolo del piccolo portico che dava sulla strada, c'era una ragnatela con qualche moschino impigliato, ma senza alcun ragno in vista. L. la visse come un presagio positivo, e così si avviò verso il paese.