Wu Ming, 54
2017-11-27
(home)

Ormai una settimana fa sono stato a trovare R. a Perugia (perché R. abita a Perugia, ora), e da quando sono tornato mi sono reso conto di pensarla in modo diverso su un certo numero di cose, cose tipo Le altre persone e la loro esistenza fuori da te, il Disorientamento, Inni al Perdersi, Parlare e Fregarsene. Poste così sembrano frammenti di canzoni poco ispirate dei Verdena ma giuro che se mi date un po' di tempo per elaborare un senso ce lo estrapolo.

Perché si cambia idea? In generale, dico. Perché la gente cambia idea? La prima cosa che mi viene è: perché ci si rende conto di aver sbagliato, il che effettivamente è un buon motivo per cambiare idea. Andiamo avanti. Quando ci si rende conto di aver sbagliato? Sempre in generale, la modalità standard con cui viviamo ogni giorno è più o meno basata sul principio "Quello che fai è giusto, le idee che hai sono corrette": d'altronde, se così non fosse, vivremmo nella continua insicurezza e dovremmo continuamente mettere in dubbio le nostre convinzioni e le certezze e, insomma, ricominciare da zero ogni volta che ci si presenta la necessità di prendere una scelta. Non per niente cambiare idea è difficile: in fondo significa attentare al nostro modo naturale di vedere il nostro modo, la nostra modalità standard - ne L'Osservatore, Napo degli Uochi Toki dice così:

Il mondo non viene comandato dai soldi o dal sesso, ma dal non voler provare quel senso di scomodità che percepisci quando ti si presenta qualche nuova possibilità.
, che è un modo diverso di definire la nostra modalità standard e la difficoltà dei nostri meccanismi per cambiare idea. Ma non è finita qui; perché nel momento in cui prendo in considerazione l'idea di cambiare idea su qualche cosa in realtà sono già, come si dice, a metà dell'opera, perché ho riconosciuto che esiste il dubbio, ho ammesso che esiste un'idea contrapposta alla mia, anche se non la condivido. Su tante, tante cose della mia vita (e forse anche di quella di chi sta leggendo) la possibilità che su certe nostre convinzioni ci possano essere dei dubbi semplicemente non la ammettiamo; non ci viene neanche in mente che alcune cose che facciamo in modo automatico possano essere sbagliate. Un esempio stupido riguarda me e il mio vecchio compagno Palazzi, che in questa sede saluto affettuosamente: un giorno ero a scuola col raffreddore e lui era il mio compagno di banco; dopo avermi visto soffiare il naso una cinquantina di volte, si mette a sghignazzare dicendo che il modo in cui mi soffio il naso fa ridere - nella settimana successiva tenni d'occhio gli altri miei compagni ed, effettivamente, utilizzavano tutti più o meno uno stesso modo, diverso dal mio, per soffiarsi il naso, seppur con piccole variazioni a livello di decibel e di muco disperso nell'aere. Perché io praticamente soffio il naso nel terzo quadrante del fazzoletto per poi ripulirmi nel primo, quindi piego su sé stessa la zona delle ordinate positive ritrovandomi alla fine le ordinate negative intonse (o quasi) e pronte ad essere utilizzate: così prendo due piccioni con una fava, o comunque il doppio del macarone con un solo fazzoletto. Il punto tuttavia non è l'analisi stechiometrica del mio mocicchino, bensì il fatto che la mia modalità standard in fatto di soffiarsi il naso era talmente assodata e indiscussa che mai mi sarei sognato di metterla in discussione, tantomeno di cambiarla. Non avrei mai cambiato idea sul mio modo di soffiare il naso, perché non immaginavo la possibilità che il naso si potesse soffiare in altri modi.

Quello del naso è un esempio, stupido, ma che nella sua stupidità sottolinea un punto essenziale: esistono aspetti della nostra vita che noi diamo per scontati e a cui non pensiamo nemmeno, ma che in realtà potremmo mettere in discussione; in pratica potremmo anche essere persone orribili e non accorgercene minimamente! Senza essere eccessivamente fatalisti, si può dire che sotto certi aspetti siamo diversi da come ci vediamo, da come crediamo di essere; la discrepanza tra il vero-me e il me-per-come-io-mi-vedo dipende da tante cose, tipo se quando ero piccolo gli altri bambini mi prendevano in giro, quanto mi reputo intelligente, il mio pessimismo e così via, ma non è che uno più ha un atteggiamento critico nei confronti del mondo più riesce a vedere con chiarezza ciò che lui stesso è veramente. Mi sembra, ad esempio, che moltissime tra le persone che ritengo intelligenti e che ammiro abbiano una visione di loro stesse molto più negativa rispetto alla realtà dei fatti. Al contrario, alcune persone decisamente stupide che conosco sembrano essere così piene di sé, sembra si vedano senza alcun difetto (io mi colloco in quest'ultima categoria). Queste ultime sono comunque esperienze anedottiche e da esse non voglio trarre nessuna conclusione.

*shels
A Perugia da R. non è successo niente. Cioè, non è successo niente mentre mi trovavo là; è stato tutto carino, e ho incontrato tante persone proprio belle in quei tre giorni. Poi, quando alle 20.55 ho preso il Flixbus che mi avrebbe portato a Firenze e da lì a Milano, ho iniziato a trarre bilanci di quei tre giorni mentre, seduto, sfrecciavo nella notte tra autostrade umbre e toscane ascoltando Butterflies on Luci's Way degli *shels. Ho avuto tutta una notte senza sonno per pensare a quello e a tutto il resto, e la cosa che non riuscivo a ignorare era, boh, che fondamentalmente erano tre giorni che non vedevo qualcuno avere problemi nel comunicare con gli altri - è un modo brutale per metterla giù e un po' enigmatico, ma se leviamo tutti gli orpelli retorici e i giri di parole quello che rimane è proprio questo: nessuno si sarebbe fatto problemi a parlare con uno sconosciuto, ad esempio nell'aula del proprio corso, oppure: nessuno avrebbe avuto i problemi che avrei avuto io nel parlare ad una persona con cui si condivide qualcosa, una passione, un interesse, certi gusti musicali, oppure ancora: ognuno era sé stesso nel modo di parlare e di comportarsi, non c'era necessariamente un filtro tra il vero-sè e il sè-per-gli-altri, non vedevo nessun problema nel comportarsi più o meno come ti pareva, in quel dato momento. Tutte queste sono impressioni, mie impressioni, che non so se R. condividerebbe (99% no) e non so nemmeno se sono cose vere, sensate, ragionevoli, ma vi giuro che non importa. Non importa, non a me comunque, non quella notte: perché quella notte ero convinto di quello che pensavo, e fa niente se anche tutte quelle mie osservazioni sono fuffa, una di quelle mie modalità standard che prima non mi aveva mai toccato è venuta fuori in tutta la sua assurdità. Più o meno come dire: non è importante come ti fai venire l'appetito, l'importante è che poi mangi qualcosa di buono, cioè, non è importante da dove trovi l'ispirazione per un discorso, un racconto, una realizzazione personale, eccetera, l'importante è che il discorso, il racconto, la realizzazione personale, eccetera siano, ecco, buoni.

Ma perché ho sempre avuto paura di parlare? Perché ho sempre avuto un blocco quando si trattava di parlare con... chiunque, che fosse la ragazza che mi piace come il mio vicino di casa, gente interessante ai concerti o qualche tizio a scuola con i miei stessi interessi? Sicuramente per rispondere devo cercare dentro me stesso (come sono new age questa sera), ma per una volta non mi do tutte le colpe: secondo me c'è qualcosa che ha a che fare con la nostra cara vecchia Valle che ha influenzato me, come anche molti altri attorno a me. Perché, non voglio parlare per tutti ma, non credo di essere l'unico a farsi o a essersi fatto problemi di questo tipo, anzi, in realtà so di almeno una persona, che chiamo M. e attualmente è domiciliat* in una località di confine della Repubblica Federale Austriaca, che ha avuto questa realizzazione più o meno in contemporanea con me: sia io sia (ma come dovrei scrivere un pronome gender-free in italiano? Lui/Lei? L**? L{ui|ei}?) ci siamo resi conto negli stessi giorni che è assurdo aver paura di parlare, è assurdo tirarsi indietro da una discussione solo perché "eh ma non lo/la conosco", "eh ma chissà poi cosa pensa di me", "eh ma poi faccio una figuraccia" eccetera, perché in realtà non so ma ogni discussione mai aperta è una potenziale amicizia buttata via, o alternativamente una conoscenza a cui rinunci in partenza per paure banali. Ora: credo che a nessuno tutto ciò sembri chissà quale rivelazione, ma vi giro una domanda: quand'è l'ultima volta che avete parlato con uno sconosciuto, anche giusto per attaccar bottone? Se è una cosa che fate spesso, beh, congratulazioni, avete sprecato cinque minuti della vostra vita a leggere di cose che già sapete! Ma se è vero che io e M. non siamo casi rari, credo che molti a quella domanda non sappiano rispondere ricordando un momento in particolare, una data, se mai ce n'è stata una. Parlare è un mezzo per conoscere, e non so voi ma da quando alle 6 del mattino sono tornato a casa a Milano prendendo la 90 alle 5.30 (ed era già abbastanza piena) ho la certezza che conoscere altre persone sia una cosa, voglio dire, veramente eccezionale, rinfrancante per certi versi, e non puoi che finirne arricchito, guadagnarci qualcosa - M. ha iniziato a seguire questo nuovo principio da una, due settimane e praticamente è un'altra persona, cioè ora esce con un sacco di persone e ho la netta impressione che abbia molti potenziali partners (immagino che a M. non piacerebbe definirl* così ma va bene così dai), c'è da dire che Perugia come La Località Di Confine Nella Repubblica Federale Ostomarca sono posti in cui il principio di massima "non c'è niente di male nel parlare con le persone / alle persone generalmente non da fastidio essere parlate" si presta molto bene ad essere applicato: un sacco di gente della nostra età dalle origini più disparate che vive per la stramaggiorparte della giornata insieme è il contesto ideale per conoscersi e parlarsi eccetera, sei fondamentalmente costretto a parlare.

"Tornai a casa che era quasi il crepuscolo, ancora ad aprile faceva freddo la mattina. Era una delle tante giornate grigie di Milano però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse. Dallo zaino tirai fuori il mio golf, che Laide aveva indossato per tutta la sera; non appena lo ebbi fra le mani, mi accorsi che emanava il suo profumo, e la stanza intera ben prestò ne fu contagiata: erano da poco passate le 6, ma il tempo sembrava essersi fermato a dodici ore prima."
Sartre parafrasando diceva che quello che cerchi non esiste, puoi solamente agire. C'è un pezzo bello che ricopio proprio da L'Esistenzialismo è un Umanismo:
Uno dei rimproveri che si rivolgono più spesso a Le Vie della Libertà si esprime così: ma, alla fine, di questi uomini così deboli come potrete fare degli eroi? Questa obiezione muove piuttosto al riso, perché suppone che eroi si nasca. E, in realtà, è quello che la gente desidera pensare: se nascete vili, sarete del tutto tranquilli, voi non ne avete alcuna colpa, sarete vili per tutta la vita, qualunque cosa facciate; se nascete eroi, sarete pure del tutto tranquilli, sarete eroi per tutta la vita, berrete come un eroe, mangerete come un eroe. L'esistenzialista, invece, dice che il vile si fa vile, che l'eroe si fa eroe; c'è sempre una possibilità per il vile di non essere più vile e per l'eroe di cessare d'essere un eroe. [...] [l'esistenzialismo] definisce l'uomo in base all'azione [...] e non c'è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell'uomo è nell'uomo stesso.
L'essere viene prima dell'essenza: cioè, noi prima di tutto esistiamo, e solo dopo viene dato un senso alle cose; prima di noi non è che c'è un senso, una morale, perché questi vengono scelti dall'uomo, anche se magari in modo inconsapevole. Sembra una cosa astratta, ma in soldoni tutto ciò significa che non c'è bisogno di qualcosa come Dio o di quale altra entità astratta per vivere, l'uomo esiste, punto. Tutto ciò che viene dopo l'uomo viene dall'uomo. Quindi è l'uomo che, scegliendo (scegliendo è una parola chiave), stabilisce il significato di tutte le cose. Ma la scelta non viene senza un prezzo, perché la scelta del singolo finisce per influenzare l'intera umanità, Sartre fa l'esempio di aderire ad un partito politico ed è abbastanza chiaro, poi fa l'esempio di sposarsi, dicendo che scegliendo di sposarti ribadisci la legittimità e la bontà dell'idea stessa del matrimonio e la ribadisci, anche qua è chiaro, in maniera pubblica e netta; e allora se ogni conseguenza della scelta ricade non solo su chi la fa ma anche su tutti gli altri un minimo di ansia ti dovrebbe venire (Sartre la chiama angoscia) perché non decidi più per te stesso ma per l'umanità intera. Una soluzione a questa angoisse intrinseca sarebbe di smettere di scegliere, in modo da non dover pesare con le proprie scelte sulle vite di tutti, ma Sartre dice che non-scegliere è non-possibile e si spiega con un una frase a effetto e un esempio. "Se non scelgo, io scelgo comunque": analizzando i risvolti psicologici nei rapporti fra giovani uomini e giovani donne quando si parla dei rapporti con l'altro sesso è ovvio assumere un certo atteggiamento - "restare casto, sposarsi, sposarsi senza avere figli [...]"; queste scelte non sono sempre e per forza del tutto ragionate (si è usato il termine atteggiamento infatti) ma a tutti gli effetti ci si impegna a perseguire una certa filosofia di vita, una scelta tacita quindi che, per come detto prima, influenzerà (tacitamente) me e (tacitamente) tutti. Si sceglie in ogni momento della vita, talvolta anche senza rendersene davvero conto, e non c'è davvero scampo dalla scelta.

Questa è la mia lettura fin'ora di Sartre e del suo L'Esistenzialismo è un Umanismo, che probabilmente contiene un po' di errori anche gravi e che forse si dovrebbe chiamare più Il Pensiero Triste di Mattyonweb, con spruzzatine di Gian-Paolo Sartre sopra. Il fatto è che mi serviva qualcuno di importante per giustificare certe cose che sentivo e che un po' ho descritto nella prima parte di questo post, e Sartre è il filosofo pop per eccellenza che tutti citano senza conoscerlo (e infatti eccomi qui) (lo citano anche ne La Vita di Adèle perdincibacco), e poi c'era una frase che mi aveva preso ma che ora non ricordo più perché questo post l'ho iniziato a scrivere il 30 di ottobre e un mese dopo è ancora qui da pubblicare. Non me la ricordo più questa frase e andando a cercare su google "Frasi belle Sartre" ne sono uscite, ma davvero, a bizzeffe di frasi belle di Sartre, ma non la mia, non la mia - però c'è questo aforisma che riassume bene il mio riassunto di L'UèUU che ho scritto sopra:

“La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso e il valore non è altro che il senso che scegliete.”
e anche:
“L'uomo non è niente altro che quello che progetta di essere; egli non esiste che nella misura in cui si realizza; non è dunque niente altro che l'insieme dei suoi atti, niente altro che la sua vita.”
Jack Kerouac, 1954
Jack Kerouac, 1954

Quello che mi serviva, nientepiù, era qualcuno che mi dicesse di essere me stesso senza paura - che non so nemmeno se è quello che Sartre vuole dire, ma scelgo di dare alla sua filosofia questo significato - perché ne ho un po' bisogno, ora. Ma non è un libro e non è un filosofo e non è (forse) un'idea che ti fanno cambiare e agire in maniera differente da un giorno all'altro e in maniera duratura, perché in fondo svegliarsi e dire "Da oggi basta: cambio tutto" è un'esperienza tanto comune da non dover specificare come ci si sente poi la sera stessa, o una settimana dopo: una merda, perché forse il cambiamento non viene dalla testa ma dalle esperienze e da come scegliamo di vederle quando esse sono già accadute; ma proprio per questo, in senso lato, la frase di Sartre è importantissima in maniera paradossale: quello che cerchi non esiste, puoi soltanto agire - quei cambiamenti interiori e radicali che andiamo a cercare più o meno in ogni fase della vita non esistono finché non agiamo nella loro direzione. Ho sentito dire tante volte che, se hai un problema, saperlo definire significa aver già fatto la metà del lavoro per risolverlo: probabilmente è vero, ma certe volte mi sembra di definire fin troppo bene i miei problemi, per poi fermarmi lì e non andare oltre, come se mi accontentassi di una bella spiegazione da dare agli altri in caso mi chiedano come va; forse l'amic* M. si trova a star bene ora non perché ha agito in direzione del cambiamento, ma perché ci si è trovat* invischiat* dentro e, volente o meno, è cambiat*, va bene anche così ovviamente ma non affiderei alla sola buona sorte la possibilità di vivere una vita più serena. No, la via è un'altra: agire. Non per niente i protagonisti di ogni romanzo (eccetto quelli il cui autore ha come modello James Joyce) sono personaggi che agiscono per superare degli ostacoli, almeno secondo la classica struttura tipo della fabula; in fondo, chi mai leggerebbe storie di persone che stanno ferme, senza agire? I romanzi che ci piacciono e che abbiamo amato sono quelli che, in profondità tra le infinite chiavi di lettura, contengono la morale "sfida lo status quo". Cos'è il cambiamento se non una sfida a quello che ci circonda. E io, chi sto sfidando?